L’ultimo leccio di Acquagrande: storia di un patriarca!

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A metà marzo comincio a diventare irrequieto. Ne ho abbastanza dell’inverno. Tutto mi sembra sporco, spoglio, triste e disordinato e il mio umore precipita negli abissi. Negli anni ho trovato una cura a questo rimedio, ed è quella di andare in luoghi disperati. Veramente disperati, dove la scelleratezza umana ha trasformato il paesaggio. Ci vado col cuore in subbuglio e torno sempre rinfrancato nello spirito. Perché vado a cercare segni di speranza. Qualche primavera in cui credere e aggrapparmi. E, di solito, qualche evidenza la trovo sempre.
Rocca San Felice, in questo, è provvidenziale, specialmente sul suo versante est. Vado in questo posto a trovare un amico. L’ultimo leccio di Acquagrande: storia di un patriarca. Solitario e semi-nascosto sul fianco di una cascatella che ormai non scorre più.

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Propaggine nord-est di Rocca S.Felice

Questo complesso roccioso si trova nella parte nord della valle del fiume San Leonardo, proprio sopra il nostro progetto casa Acquagrande. Nuda roccia dolomitica e pochissima vegetazione. Il vento sferza impetuoso e la terra ti frana sotto i piedi. Ma non è stato sempre così. Ne abbiamo parlato più di una volta sul blog, perché è un’ottima scuola per fare interpetazione ambientale, per studiare fitosocologia o per capire come cambiano le cose nel tempo.
Il solitario leccio è per me punto di ristoro nelle passeggiate, amico dell’infanzia e saggio maestro di perseveranza e resilienza. Nonostante non sia enorme, nè carismatico, quest’albero racconta la storia di un paesaggio che non esiste più. Mio nonno, nato all’inizio del secolo, se lo ricordava già grande. Abbiamo così stimato che sia nato nella prima decade del 1800, probabilmente negli anni 50.

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Quest’albero appare ogni anno più spoglio, più provato, più solitario che mai. Ma riesce ancora a vegetare e qualche volta addirittura fruttifica! Com’è arrivata una ghianda di leccio in questa pietraia? Non ci sono boschi vicini e gli unici alberi, distanti chilometri, sono delle vecchie roverelle.
Eppure in un autunno qualsiasi, a metà ‘800, una ghianda dev’essere caduta proprio là. In una conchetta nel terreno fertile, seminascosta sotto la lettiera di foglie. Ha cominciato a radicare, cacciando fuori due minuscoli cotiledoni, poi due foglie. Quattro, otto, decine, centinaia. Nel giro di due anni doveva aver raggiunto i 10 cm. In un decennio sarà stata alto almeno due metri. E attorno aveva un bosco di lecci!

quercia resilienza

Nel 1850 la vallata in cui sono cresciuto era in pieno periodo post-feudale. Contrada Acquagrande faceva parte di un ex-feudo ecclesiastico, dove i monaci francescani coltivavano e gestivano armenti (ne abbiamo parlato qui). Il nostro leccio era nato in un sistema in cui, nello stesso versante, pascolavano animali, vi erano coltivazioni di mandorlo e ulivo, sulla parte terrazzata del versante, e una fitta lecceta nel lato est. Terra umida e fertile, profonda e piena di vita. Gli alberi svettavano frondosi, facendo filtrare poca luce sulla lettiera. C’era acqua abbondante e vita selvatica ovunque.
Il nostro giovane leccio, ancora una plantula, osserva fiumi di gente passargli davanti: sono i rivoltosi che vanno a Palermo, a fare la rivoluzione. Da lì a poco, saremmo stati ammessi al Regno d’Italia.

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Terrazzamenti su Rocca S.Felice

Niente più feudi, significava terra per tutti. Eppure, le promesse mantenute sulla equa divisione delle terre non vennero mantenute. Nel 1860 il nostro leccio doveva ormai essere un giovane albero, che superava il paio di metri. Non c’erano più frati e mezzadri a calpestare il suolo di quei boschi. Ora a rinfrescarsi alla sua cascatella, vi erano nuovi personaggi: i briganti!
Nel ventennio compreso tra il 1860 e il 1880 infatti, il fenomeno del brigantaggio esplose in tutta la Sicilia. Si stimano ca. 2500 morti, freddati nei boschi dal regio esercito, oltre a 3000 briganti condannati a esecuzione sommaria. Alla fine dell’800, la Sicilia era ancora in subbuglio. Cominciava la riforma industriale e i boschi siciliani venivano fatti a pezzi.

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La situazione del tronco sul nostro leccio solitario, dovuto ai continui incendi…

La maggior parte dei nostri boschi sono scomparsi all’inizio del ‘900. Grossi investimenti venivano fatti dal governo sabaudo per le infrastrutture e le giovani industrie. La popolazione cresceva e serviva legna!
Nella prima metà di quel secolo furono fatti fuori quasi tutti i boschi della Sicilia nord-occidentale. Il nostro leccio, ormai un albero maturo e pieno di vita, deve aver visto scomparire tutti i suoi conspecifici nel giro di un decennio. Come ha fatto a salvarsi? Probabilmente a causa della sua posizione, difficile per effettuare il taglio e praticamente impossibile da far rotolare a valle.
In una zona così in pendenza però, la mancanza di alberi si è fatta subito sentire. La vita è stata praticamente azzerata, le acque superficiali sono scomparse. La cascatella sarà andata rapidamente in secca. Le specie animali si sono ancorate a quel poco che rimaneva, come il nostro leccio!

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Molte specie trovano rifugio nei pressi di questo leccio. Questo è un giovane geco (Tarentula mautiranica) in termoregolazione.

Siamo nel 1960 e mio nonno acquista quella che oggi è casa Acquagrande. Una zona fertilissima e ricca di acque, dove si coltiva di tutto, dai frutteti al grano. L’aria è gradevole e fresca e la terra grassa. Il contrasto con ciò che c’è a monte, però, è davvero stridente. Di quello che doveva esserci, su Rocca San Felice, non è rimasto praticamente niente. La mancanza di radici e di ombra ha subito fatto perdere aderenza al suolo, che con le piogge è precipitato a valle, fertilizzando i sistemi agricoli sottostanti. Nel primo dopoguerra, il bosco si è trasformato in uno spelacchiato cocuzzolo di rocce affioranti, devastato dagli incendi appiccati dai pastori, che mirano a sfruttare quel poco che rimane di vegetazione, peggiorandone la situazione.

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Contrada Acquagrande

Eppure, attorno al nostro leccio c’è un bosco che dorme sottoterra!
In mezzo alla rada vegetazione, bruciati dai continui incendi e rosicchiati dalle capre, giovani polloni di leccio spuntano ovunque si accumuli un po’ d’acqua, emergendo coraggiosi dalle rocce. Non riescono mai a farcela, a causa della cecità e dell’incuria umana. Però resistono, nell’attesa di tempi migliori. Non so se mentirgli o meno, ma passandogli accanto non posso non toccarli lievemente, esprimendogli la mia ammirazione.

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…tutt’attorno, una foresta che dorme…

Quest’anno, alla passeggiata rigenerativa, ho aggiunto anche una manciata di seed-balls. Dentro, tanti semi di piante autoctone, adatte a questo ecosistema massacrato, che potrebbero dare una mano a riformare suolo e a ricacciare velocemente dopo gli incendi. E anche qualche ghianda di leccio, per variare un po’ la genetica di quel simpatico vegliardo.
E’ una goccia che tenta di arrestare un incendio, ma da qualche parte di deve pur iniziare. Non posso ammettere la mia impotenza di fronte a un albero che ce l’ha fatta su tutto!

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Il vostro caro Totò

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