Trovandomi spesso a collegare mondi con un approccio radicalmente diverso sulle dinamiche naturali, mi sono accorto che si ha spesso una visione riduzionistica nella valutazione dello spazio che abbiamo attorno, inclusa la lettura del paesaggio.
Immaginate due amici, un agronomo e un naturalista, su un cocuzzolo roccioso ad osservare tutto ciò che c’è sotto di loro. L’agronomo valuta soprattutto le coltivazioni, la loro distribuzione e il rendimento effettivo, comparandolo a quello potenziale che un territorio potrebbe avere. Le parti naturali vengono per lo più ignorate o osservate e valutate soltanto con l’occhio imprenditoriale del loro potenziale agronomico.
Quanto si potrebbe ricavare rimpiazzando quel bosco planiziale con un pioppeto da ceduare?
E se quel prato stabile fosse riconvertito a carciofaia?

Aree agricole attorno Grisì (PA)
È un approccio riduzionistico. Le parti naturali di un paesaggio sono un enorme serbatoio di biodiversità, ultimi scampoli di un pianeta sempre più modificato e trasformato dall’uomo. Inoltre, se vogliamo guardarlo da un lato molto antropocentrico, le patches naturali forniscono una quantità di servizi ecosistemici alle attività umane che è anche solo difficile da quantificare. Regolazione del deflusso delle acque, depurazione delle stesse, predazione sulle specie che affliggono le colture, arricchimento dei suoli, stoccaggio di carbonio, impollinazione, dispersione dei semi. Così, entrambe le parti, che potremmo raggruppare in ecosistemi naturali ed ecosistemi antropici, contribuiscono al buon funzionamento del territorio, creando cibo per l’uomo e la vita selvatica e autoregolandosi in un complesso meccanismo di equilibrio dinamico.
La stessa cosa può dirsi per la visione del naturalista. Egli preserva e tutela le parti selvatiche di un paesaggio. Ne annota la quantità di specie, ne stima le abbondanze e ne registra i cambiamenti nel tempo, spesso utilizzando alcuni animali o piante come (bio)indicatori per capire e registrare le risposte di un ecosistema a un cambiamento indotto dalle attività antropiche. Ma le parti coltivate, i pascoli, le zone urbane, spesso non vengono nemmeno considerate, in un approccio che tende a cristallizzare la situazione odierna della vita selvatica (o meglio, di quello che ne è rimasto) in maniera protezionistica. Si tende quindi a preservare quei pochi scampoli di natura incontaminata, separandoli e non integrandoli all’interno di un paesaggio che è di per sé un’area geografica spazialmente eterogenea, caratterizzata da diverse parti che interagiscono ampiamente tra di loro.

Considerando solo gli ecosistemi terrestri, ben il 50% delle terre emerse è costituito da ambienti modificati dall’uomo. Di questo, una percentuale relativamente bassa è formata dagli insediamenti umani, costituendo ecosistemi urbani e periurbani. La stragrande maggioranza è costituita da campi coltivati, boschi dedicati alla silvicoltura e pascoli. Il restante 50% della Terra non ha subito modifiche rilevanti da parte dell’uomo solo perché costituito da ambienti inospitali alla vita per la nostra specie. Basti pensare ai deserti o alle calotte polari.
Questa enorme massa terrestre soggetta a continue modifiche ambientali ospita, in realtà, una grande biodiversità in termini di numero di specie animali e vegetali. La vita selvatica si adatta, spesso in punta di piedi, a vivere nelle colture, nei pascoli, perfino nelle grandi città, mettendo in atto connessioni ecologiche nuove e inaspettate, reagendo in maniera creativa al cambiamento. Sarebbe quindi compito del naturalista allargare le proprie vedute anche ad ambienti antropizzati, valutando quali e quante specie riescono ad adattarsi a questa nuova “era dell’Antropocene”, piuttosto che tentare di salvare il salvabile. Un approccio che consideri entrambi gli andamenti, insomma.
Per fortuna, a volte sul cocuzzolo dove dibattono l’agronomo e il naturalista, arrivano altre figure come l’ecologo o il permacultore, che affrontano la questione in maniera olistica, tentando di osservare il più possibile ad ampio raggio, partendo proprio dal paesaggio. L’osservazione olistica è attività tendenzialmente favorevole a chi è incline all’ozio e alla meditazione. Osservare il paesaggio richiede la partecipazione della parte più profonda e selvatica di noi, quella intuitiva e che riesce ad allargarsi su campi di pensiero molto ampi. Siamo rimasti in pochi ad avere un rapporto con il paesaggio quale fonte di informazione.

Questo binomio uomo-paesaggio sembra essere tramontato con la fine della civiltà contadina, in un periodo storico in cui è più la gente che vive in città rispetto a quella che abita le campagne. Viviamo infatti in un paese in cui c’è un distacco delle nostre necessità essenziali, a discapito dal contatto diretto con il territorio. Almeno, questo è quello che vivono i 47 milioni di italiani che vivono in aree urbane (il 76,5% della popolazione, media in linea con gli altri paesi dell’Europa occidentale).
Oggi non abbiamo più bisogno di guardare la terra per capire se ci darà buoni frutti, così come non serve guardare il cielo per sapere se domani pioverà, o interpretare la strada migliore per spostare i nostri animali, la nostra famiglia e così via. Osservare il territorio è divenuto sostanzialmente un fatto estetico, emozionale. Osserviamo la scenografia di un territorio, il panorama, e non il contenuto di quel territorio, cioè il paesaggio.
Il vostro caro Totò


Salvatore Bondì
Naturalista, specializzato in Biodiversità ed Evoluzione.
Ornitologo. Permacultore. Bighellone per necessità.