Alla ricerca dell’Usignolo di fiume

Marzo ha la tediosa prerogativa di apparire troppo lungo. Quando finisce Febbraio i segnali dell’inverno prossimo alla fine sono ormai evidenti. Innegabili come le foglie coriacee racchiuse dentro le gemme. C’è un freddo così intenso, un freddo così gelido che ti induce a pensare “peggio di così non può essere”. Si può andare solo a migliorare. Ma la primavera sembra non arrivare mai.  Passi ogni giornata, ogni centellinato momento, ad aspettarla. L’attesa diventa, così, infinita e tormentata. Tutto di guadagnato però quando la primavera arriva per davvero. La stagione dell’abbondanza, della rinascita, ha poi il sapore delle cose attese a lungo. Il sapore dell’uovo di Pasqua dopo averlo guardato e desiderato lungo tutta la delirante quaresima di privazioni invernali. Stamattina, appena sveglio, il sole illuminava tutto a festa e la luce entrava nella mia stanza come musica. Era tutto un bluff, fuori l’aria era ancora fredda, la natura cristallizzata.

La giornata insomma non prometteva nulla di buono

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Questo era quello che pensavo mentre salivo in montagna. L’alba soleggiata e tiepida si era trasformata ben presto in una mattinata grigia e noiosa quasi come i programmi di canale cinque. Il cielo di un azzurro indeciso. Sotto di me, lungo tutta la valle del fiume San Leonardo si stendeva una morbida coperta di umidità, che il timido sole sollevava verso le cime in sbuffi di bruma.

Ma ero felice. Perché è finita la sessione d’esami. Perché comincia la stagione di campo. Perché in fondo la primavera è davvero alle porte.

 C’è stato un tempo in cui, libero e provetto naturalista, potevo abbandonare tutti gli impegni quando più mi andava e dedicare qualsiasi giornata dell’anno a scorrazzare libero per i prati, saltellando come una allegra capretta tra una fioritura e l’altra. Ma i tempi sono cambiati. Tutti (o quasi) i miei sforzi ora sono mirati a qualche lavoro su una specie in particolare o su raccolte dati sul campo. Nulla di meno divertente, solo più schematizzato. Uno degli obiettivi di questa stagione di campo è lui: l’Usignolo di fiume.

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Passeriforme relativamente anonimo, è però capace di dimostrarsi un uccellino relativamente simpatico e pieno di eccezioni. Soffre innanzitutto di quella che io chiamo “sindrome dello Scricciolo”. Come quest’ultimo infatti, nonostante sia un uccellino di solo 9 gr. di peso, ha un vocione squillante e di tutto rispetto. Un ciuffetto di piume con le doti canore di una tromba da stadio. Per distinguersi dalla plebaglia inoltre, ha deciso evolutivamente di perdere due penne della coda. Se tutti i passeriformi ne possiedono 12, lui ne ha soltanto 10. Inoltre tra tutti i passeriformi di “canneto” è l’unico ad essere sedentario (non migra cioè nelle assolate terre sud-sahariane) e spiccatamente poliginico (un maschio infatti può fecondare anche 3-4 femmine).

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L’ambiente dove vado a cercare questi piccoletti è una zona che conosco palmo a palmo. Altro non è che il mio local patch, una zona praticamente dietro casa. Ambiente medio-montano, poco frequentato,  ricco d’acqua e sopratutto con una complessità di fauna e flora sbalorditiva.  E’ in realtà anche un luogo molto silenzioso, dove è davvero difficile incontrare presenza umana e il contatto con la natura è praticamente totale. Un’angolo di mondo bucolico dove sintonizzarsi con l’ambiente diventa naturale (appunto!)

Nutrivo un’innata simpatia ed ero entusiasta di impiegare questa primavera nello studio delle sue abitudini riproduttive. 

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Almeno fino a quando non mi sono documentato sugli habitat riproduttivi di questo furfante. Dalla bibliografia risulta infatti prediligere ambienti fluviali di modesta portata, a corso moderato o lento, ampiamente vegetati. Il nido è una coppa vegetale costruita a non più di un metro dal suolo, o direttamente a terra. L’ambiente prediletto un classico habitat anti-studiosi: il roveto! A volte però utilizza anche associazioni vegetazionali dove è comunque presente il rovo, misto ad altre piante (nel mio caso ortica, rosa canina, cardo mariano, ginestra spinosa… tutte piante non molto desiderose di farsi toccare! ).

Passata quindi la sella abbandono il sentiero principale per cominciare a seguire le piste delle mandrie, in mezzo a rivoli e cespuglieto. Fango dappertutto. Le spine mi strappano i pantaloni, mi tolgono il cappello, mi graffiano le mani. Rovi e ginestre mi avvolgono, in una tavolozza di verdi e marroni. Ancora un mese e poi sarà tutto fiorito. Mi godo i fiori del prugnolo, ormai prossimi a cadere, di un bianco marcio.

Seguo i piccoli rivi per un totale di dieci chilometri. Provo col richiamo ad esortare i maschi nel loro esplosivo canto bitonale. Niente. Di solito è un metodo che non uso, mi sembra di apportare inutile stress all’animale o comunque fargli spendere energie preziose. Ma in questo caso non trovo altra soluzione. E’ come cercare un ago in un pagliaio (di spine però!). Qualche maschio mi risponde da lontano, lo segno approssimativamente sulla cartina ma non riesco ad ottenere dei buoni dati per tutta la giornata. Il cielo sempre più smorto comincia ad intristirmi. Nemmeno l’avvistamento di un’aquila reale e il passaggio di tre cicogne nere in migrazione riescono a risollevare il morale. Neanche il panino con le polpette di mammà.

Ma come nei migliori film, sulla strada del ritorno, un maschio risponde al richiamo a pochi metri da me! Ci pensa un po, poi esce dalla sua fortezza di rovi e si poggia su una rosa canina. Così vicino che potrei bisbigliargli un saluto. Così confidente che non sembra nemmeno lui, di solito nervoso e irrequieto. Tanto da guadagnarsi il nomignolo di “folletto del canneto”.

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Rimane una buona mezz’ora a girarmi in tondo. Sembra quasi che sia lui a studiare me e non il contrario. Quando gli animali selvatici mi guardano, coi loro occhi profondi ed indagatori, ho sempre una vaga sensazione di disagio. Un sentirmi estraneo, quasi un invasore. Un usurpatore della loro tranquillità interiore, del loro mondo difficile vissuto giorno per giorno. Provo ad attirare le femmine, lanciando quello che sarà l’ultimo richiamo della giornata. Il signorino si posa sulla stessa rosa canina e allarga le ali, in atteggiamento terrifico. Vuole intimorirmi? Mi sembra più infastidito che arrabbiato. Mi sa che è ora di andare via…

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Sulla strada del ritorno sentimenti contrastanti cominciano un braccio di ferro interno. Il cielo è ormai plumbeo, l’aria gelida è quella di una sera di fine inverno.

Ma sono felice! Perchè tra un pò e primavera. Significa prati pieni di orchidee. E giornate nei prati illuminati a festa. E tornate a casa col calore del sole sul viso.

Oggi la giornata non prometteva nulla di buono. Ma io l’ho fregata alla grande!!!

Il vostro caro Totò

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